Hikikomori nell'era post narcisistica

Hikikomori
“Hikikomori” è un termine coniato dallo psichiatra giapponese Saito Tamaki, negli anni Ottanta, per definire un fenomeno emerso in Giappone circa 10 anni prima rispetto a quando abbiamo iniziato a parlarne in Italia. “Hikikomori” significa “stare in disparte, isolarsi”: deriva dai verbi “hiku” (tirare indietro) e “komoru” (ritirarsi) ed è tradotto in italiano con “ritiro sociale”. Gli hikikomori infatti si ritirano completamente dalle scene sociali, non riuscendo a sopportare il dolore provocato dallo sguardo dell’altro, dalla vergogna di presentare il proprio corpo e dalla certezza di fallire in ogni ambito. Al riparo delle mura domestiche affronta i giorni, consumando i pasti, solitamente invertendo il ritmo circadiano, sestando sveglio di notte e dormendo di giorno, e utilizzando, a volte, Internet come unico canale di contatto con il mondo.

Nei rifugi della mente dei ragazzi ritirati dominano la fantasia onnipotente, le relazioni perverse, il sado-masochismo e il narcisismo, tutti elementi che sembrano fornire al Sé un senso di pseudo-sicurezza e pseudo-protezione.
Il ritiro può anche rimanere in equilibrio per un periodo prolungato, ma solitamente tende a espandersi e a sottomettere il resto della personalità. Questo spiega la potenzialità patogena di alcuni ritiri che, costituitisi nell’infanzia, potranno arrivare anche ad un esito psicotico nell’età adulta.
Poiché il ritiro altera progressivamente il contatto con la realtà emotiva e cancella la percezione dell’abbandono e dell’assenza emotiva dei genitori, questi bambini non segnalano il loro disagio. Alcuni di essi possono costruire un ritiro per sottrarsi ad esperienze emotivamente difficili o traumatiche come, per esempio, una madre assente o perennemente angosciata e intrusiva.
Il ritiro è quindi una misura difensiva ma anche, e soprattutto, un luogo di piacere in cui il paziente si sente capace di creare dal niente i propri oggetti. Tale luogo deve essere mantenuto segreto per continuare ad esistere. Spesso alcuni silenzi ostinati nel corso del trattamento corrispondono ai momenti in cui il paziente sta coltivando lo spazio segreto del ritiro.

L’aumento della psicopatologia giovanile appare essere fortemente legato anche a cambiamenti relativi la struttura familiare: anzitutto, il ruolo del padre prima era quello di guida e contenimento dei figli, differentemente da oggi; inoltre si verificano negli ultimi anni meno nascite e quindi famiglie meno numerose, che ha condotto ad una partecipazione sempre più attiva dei figli nella vita dei genitori, instaurandosi un rapporto confidenziale dove l’adulto tende ad assecondare e a non fornire il contenimento necessario.

Fino a cinquanta, sessanta anni fa i rapporti familiari erano declinati secondo una dialettica di tipo edipico. La famiglia del passato era la famiglia autoritaria, la famiglia del “Prima il dovere e poi il piacere”. Lo scopo era quello di dotare i figli di una precisa identità e di crescere adulti del futuro responsabili, educati, controllati, autonomi in grado di inserirsi in una società altrettanto normata e rigida, a costo di farli sentire inadeguati e inopportuni. Se la ricerca del piacere, l’affermazione personale e la trasgressione di qualche regola familiare e sociale erano per un verso fonte di un pervasivo senso di colpa, dall’altro erano anche causa di contestazioni e scontri generazionali. Tuttavia, negli anni successivi alla rivoluzione giovanile, la società è cambiata e con lei il sistema familiare. Ecco farsi largo la famiglia narcisistica, affettiva e relazionale, dove tutte le energie sono impiegate nel favorire l’espressività, l’originalità e la felicità del bambino. La metamorfosi più lampante è stata quella della figura paterna: non più padri distaccati e autoritari, come nella famiglia normativa, ma padri amorevoli e affettivi. Regole se ne danno ancora, ma sempre più motivate e inserite in una perenne spiegazione ed esplicitazione dell’agire adulto. Lo scopo educativo non è infatti più quello di plasmare i figli secondo rigidi dettami, ma fornire loro tutte le risorse necessarie alla realizzazione e al raggiungimento dei successi personali e sociali. I bambini non sono quindi più sottomessi a regole inflessibili, non sono più obbligati a fare i conti con dolore, frustrazione, e senso di colpa: vengono iperstimolati ogni giorno a comportarsi come piccoli adulti, a dire sempre la propria; segue poi un’adolescenza fortemente infantilizzata. Gli adolescenti vengono accusati di essere diventati irresponsabili, di curarsi del superfluo, nonostante siano stati i genitori ad averli avvicinati fin da piccoli alla rete e ad averli dotati di tutti i dispositivi per restare in contatto con i coetanei. Gli adolescenti sono cresciuti adattandosi esattamente alle richieste e ai modelli educativi narcisistici della società in cui sono nati. In questo quadro interviene la pandemia. Anche nell’attuale famiglia postnarcisistica i figli vengono cresciuti in una dimensione di anticipazione delle esperienze, di precocizzazione, di aspettative ideali di successo e popolarità. Tuttavia si assiste oggi ad un’esasperazione del Sé e della difficoltà ad avvicinarsi e ad incontrare gli altri. La famiglia postnarcisistica fatica enormemente ad avvicinarsi ai bisogni, alle fragilità e al funzionamento reale del proprio figlio, tentando invece, senza volerlo, di entrare nella sua mente e di spiegargli come è fatto e come si sente. Questo consente così all’adulto di ricevere una conferma del proprio buon operato come genitore.

Bibliografia
· Civitarese, G., Ferro, A. (2020). Vitalità e gioco in psicoanalisi. Raffaello Cortina Editore.
· Lancini, M. (Ed.) (2019). Il ritiro sociale negli adolescenti. La solitudine di una generazione iperconnessa. Raffaello Cortina Editore. Milano.
· Lancini, M. (2023), Sii te stesso a modo mio. Raffaello Cortina Editore. Milano.